Londra nel cuore
Viaggiare significa spesso perdere un po’ di sé stessi, per scoprire una persona nuova presente in noi.
È quello che mi è accaduto nel settembre del 2012, quando ho deciso di chiudere in una valigia tanti pezzi del mio passato e di trasferirmi in Inghilterra, precisamente a Londra. In realtà, non si trattava di un vero e proprio trasferimento, avevo in programma di rimanere alcuni mesi, per migliorare la lingua e farmi una di quelle esperienze che “lasciano il segno”, insomma un’esperienza che non avrei dimenticato tanto facilmente e così è stato. Prima di quel giorno non ero mai stata all’estero, non avevo mai viaggiato da sola, non avevo mai preso un volo.
Per farla breve, non avevo idea di cosa potermi aspettare, avrebbe potuto rivelarsi anche l’esperienza più brutta della mia vita, considerando poi che ho sempre avuto un po’ paura a “lasciare”, a “partire”…
Queste ansie, miste al terrore che ho sempre avuto di perdermi, anche non troppo lontano da casa, rendevano il viaggio ancora più incerto. Eppure volevo partire, per sfidare me stessa, per poter dire: “Ho fatto una cosa che non credevo possibile”. Ero insoddisfatta della vita che stavo vivendo: molte cose erano cambiate intorno a me, persone care che non c’erano più, assenza di lavoro in Italia e un forte calo di interesse per i miei studi: solo un viaggio avrebbe potuto scuotermi interiormente. Non ero neppure così convinta che sarei tornata in Italia, mi ripromisi infatti che, a determinate condizioni, sarei rimasta a Londra. Tuttavia fissai il volo di rientro per tre mesi dopo, a dicembre, pochi giorni prima del Natale.
Avevo organizzato tutto alla perfezione: avrei alloggiato presso una famiglia, occupandomi del loro figlio e poi avrei seguito corsi o cercato un altro lavoro, per guadagnare qualche soldo e perfezionare la lingua. Avevo conosciuto un ragazzo in chat, anche lui trasferitosi a Londra da alcuni anni e, come una pazza senza senno, decisi di fidarmi, tanto da dirgli giorno, luogo e ora in cui sarei arrivata.
Lui era lì, fuori dall’aeroporto, che mi attendeva come si attende una persona che si conosce da molto tempo e a cui si vuole riservare il massimo dell’accoglienza e del calore. Chiac
chierammo, come se davvero ci conoscessimo da sempre. Dovevo prendere un treno, che mi portasse in città e lui mi accompagnò, poi ci salutammo, perché avevo appuntamento con la famiglia che mi doveva ospitare e che mi venne a prendere alla metro. In realtà il ragazzo inglese era un tipo molto giovane, sulla trentina, con cui avevo parlato su skype. Mi raccontò di sua moglie, anche lei più o meno della stessa età e del loro bambino di due anni.
Arrivammo in Wood Green, vivevano in una piccola villetta bianca, con giardino. Entrando in casa, quella casa che per tre mesi sarebbe stata anche la mia, provai dubbi e angoscia: e se fossero stati sporchi e disordinati? Se la mia stanza non mi fosse piaciuta? In fondo non conoscevo queste persone e decidere di vivere con degli estranei per tre mesi e in un paese straniero è sempre un po’ un azzardo.
I miei timori furono spazzati via pochi attimi dopo, quando fui accolta dal profumo di riso. Avevano cucinato un piatto italiano per me! Certo non era proprio come trovarsi in Italia, ma sempre meglio dei tanti negativi pronostici sul cibo inglese. L’impressione fu quella di una famiglia accogliente e anche la mia camera era molto carina, con un letto grande, un armadio spazioso e una scrivania.
Il giorno successivo ebbe inizio il mio primo vero giorno inglese: il bambino si era ammalato e c’erano inoltre da sbrigare piccole commissioni quotidiane, come la spesa. Mi divertii a curiosare tra gli scaffali, scoprendo piatti provenienti da tutto il mondo e di cui in Italia non conoscevo neppure l’esistenza. Il primo mese passò velocemente, occupandomi part-time del bambino e lavorando, nel week-end, come commessa. Continuavo a frequentare “Il ragazzo dell’aeroporto” e intanto il mio inglese migliorava, abbandonando sempre più le mie paure.
Mi dispiace se vi deluderò, ma in questa storia non accadrà nulla di speciale, o comunque niente che non possiate immaginare: iniziai una relazione con il ragazzo che vi ho citato e lasciai andare tutti i miei timori, abbandonandomi alla sua cultura. Lui era marocchino, mi insegnò alcuni piatti tipici dei suoi posti e mi guidò nella conoscenza della sua fede. Prima di quel viaggio io ero una persona chiusa e di certe cose non avrei mai voluto saperne, ma trovarmi a Londra, con la sua multi-etnicità, fu per me una svolta di vita. Iniziai a leggere il Corano, visitai moschee, indossai hijaab colorati, imparai a mangiare con le dita e il pane, piuttosto che con le posate e mi lasciai trasportare da tutte le novità che mi vennero proposte.
Dopo non molto tempo lasciai la famiglia inglese e decisi di andare a vivere dal “ragazzo dell’aeroporto”. Ho vissuto il mio ultimo periodo a Londra in maniera un po’ zingara, spesso senza sapere cosa avrei fatto la mattina o la sera successiva, o l’ora successiva, degustando piatti il cui contenuto mi era ignoto e sedendomi a parlare con persone sconosciute, ma con l’atteggiamento di chi si conosce da sempre.
Dicembre arrivò in fretta, con le sue luci e la sua magia e, per me, si avvicinava il tempo di tornare a casa. Decisi di non rimanere, per non rovinare quella magica perfezione che avevo vissuto, perché ero certa che prima o poi la quotidianità sarebbe arrivata anche lì. Riempii di nuovo la mia valigia, questa volta più pesante, grazie ai tanti ricordini che Londra mi aveva lasciato, ma anche più leggera, grazie alle paure e ai limiti di cui mi ero spogliata. Donai un caldo abbraccio a tutti coloro che mi avevano accompagnata in quell’avventura e passai le successive ore in lacrime: Londra si era presa un pezzo di me, del mio cuore, della mia anima, ma mi aveva donato anche e soprattutto, una nuova me.