La prima volta che la vidi fu ad una “spunta” di mercato, dove tutte e due avevamo i banchi, io da sola e lei con suo marito Salak; io vendevo rigatteria, e loro un misto tra biancheria per la casa e abbigliamento. Alta, magra e ben fatta, capelli nero blu in una coda di cavallo che le arrivava al sedere e un sorriso deciso che le dava luce agli occhi. Quella mattina erano avanzati solo due posti tra gli ambulanti e ci toccarono; eravamo vicini. Salutandoci, io e lei, il nostro scambio di sguardi fu profondo e pulito, e, già da mentre si sistemavano i banchi, si parlava, dapprima una conversazione fatta di frasi brevi, domanda e risposta; poi, piano piano nel corso della mattina, interrotta solo dalla presenza di qualche cliente e qualche vendita, questa si fece più animata e le nostre parole si intrecciavano, le nostre bocche raccontavano…
Alla fine di quel mattino di sole settembrino conoscevamo le vite l’una dell’altra, intrecciate su una piazza di mercato, e tutto il resto sembrava girare intorno; mentre noi, prendi una cesta, metti nella busta un pezzo, riscuoti i soldi, rimetti a posto la cesta, eravamo diventate amiche.
Allora non avevamo ancora tutti i posti assegnati, e quindi ci si vedeva spesso, ma non sapevamo dove, a quale mercato; ma ogni nostro incontro era una bella sorpresa. Fusjia era la seconda moglie di Salak, venuti in Italia con loro figlio, il piccolo Rachid di quattro anni, e Khaled di undici, figlio della prima moglie dell’uomo. La vedevo lavorare molto, praticamente il banco lo gestiva lei, il marito guidava e la aiutava soltanto nell’allestimento; poi, a metà mattina se ne andava per ritornare soltanto verso le dodici, che era l’ora di chiusura. Ma anche a sgombrare e risistemare tutta la merce nel furgone ci pensava lei, con la forza dei suoi venticinque anni, una luce vivace negli occhi, e una bellezza solida e morbida allo stesso tempo.
Era la prima volta che conoscevo da vicino una famiglia marocchina, e ne ero contenta; e, in quel tempo, all’inizio della nostra amicizia, non detti molta importanza al comportamento di Salak; “è la loro cultura” mi dicevo, anche se con un po’ di perplessità. In fondo, Fusjia non si lamentava mai, era sempre allegra, e inoltre vestiva all’occidentale, magliette colorate aderenti e jeans, scarpe da ginnastica, spesso i capelli sciolti, si truccava, e metteva smalto rosso sulle unghie perfette. Era affabile, educata, gentile con tutti, si faceva chiamare Lucia; solo io la chiamavo col suo vero nome marocchino, che trovavo stupendo; mi sembra che, mi raccontava, significasse “principessa del deserto”, ma non so se ricordo bene.
“Lucia” piaceva agli uomini che frequentavano il mercato; e le battute che le rivolgevano a volte erano pesanti; lei, quando si era vicine di banco, si voltava verso di me, vergognandosi quasi, e io spesso intervenivo in sua difesa, le battute spesso morivano sulle labbra di quegli uomini, ma non sempre. E una volta uno, rivolgendosi a me con un sorrisino malevolo, mi disse: “Signora, non è tutto oro quel che luccica, a volte l’apparenza inganna”. Non mi preoccupai a cosa volesse alludere, presa com’ero dai nostri disagi di donne, lì in piazza, e lasciai perdere.
Passarono mesi, l’amicizia tra me e Fusjia si rafforzò, ci aiutavamo in caso di pioggia, con la merce che si bagnava e gli ombrelloni che diventavano pericolosi a ogni ventata; lei era più forte di me, saliva sul trespolo del mio ombrellone col suo solito sorriso lucente e vi faceva peso, mentre io tenevo in braccio Rachid, e ne sentivo l’odore dei ricciolini corvini.
Dopo un po’ tra noi ambulanti, si venne a sapere che Salak mandava Khaled, il figlio più grande a vendere per le case, calzini, mutande, fazzoletti; un giorno lo vidi anch’io camminare sul ciglio di una strada trafficata con un borsone dell’Ikea strabordante di merce, che sbilanciava il suo cammino; ma quando mi fermai per dargli un passaggio, lui mi supplicò di andarmene, di lasciarlo stare. Così feci, amareggiata e preoccupata; riferii il fatto ai Vigili Urbani, e la cosa finì lì; capii che era tutto tollerato, e che non c’era la volontà precisa di indagare su quello sfruttamento di minore; “non è un caso isolato, ma prenderemo provvedimenti” mi fu detto da questi.
Passarono altri mesi, un anno o giù di lì. Fusjia mi portava Cous-cous e felafel da assaggiare, ci scambiavamo pezzi di dolci, la mattina, ciambellone e “corna di gazzella”, li si mangiava come seconda colazione. Un giorno, prima della chiusura, mi volle regalare una scatola di calzettoni, lo fece con gli occhi imploranti, “prendili, per favore, mettili nel furgone, Salak non deve saperlo, non sono riuscita a venderli…”. Lo feci, ammutolita. Si stava delineando un quadro niente affatto piacevole della sua vita; ma mi sentivo impotente, e limitata a pochi gesti di solidarietà nei suoi confronti. Salak da tempo mi guardava storto, i suoi occhi neri, a volte bistrati, erano cupi, anche se non perdeva mai la sua gentilezza verso di me e si prodigava in caffè e salamelecchi.
Una mattina, una brutta mattina che non scorderò, arrivò il loro furgone in piazza; ne scese prima Salak, e dopo Fusjia (ma non col suo solito slancio, un saltello che conoscevo bene), un foulard in testa con cui si copriva anche il viso. Non sorrideva e i suoi occhi guardavano atterriti; poi quando il marito, come tutte le mattine, se ne andò, si tolse il foulard: così vidi, vedemmo tutti, i segni di strane bruciature fresche… “Ma cosa hai fatto!?” fu inevitabile chiederle. “Mi è schizzato l’olio di una padella sul viso” fu la sua risposta, mentre i suoi occhi guardavano verso la merce che stava mettendo sul banco. Ma dopo un po’ un pianto silenzioso appena mosso da dei piccoli gemiti uscì da tutta sé stessa, e tutti capimmo.
Senza aspettare troppo, e, noncuranti delle sue parole per dissuaderci, io con Rachid per mano, i Vigili Urbani del mercato in presidio al furgone, e alcuni di noi, l’accompagnammo al Pronto Soccorso con un’auto di una collega ambulante.
Da lì venne fuori tutto: da quell’olio bollente, avanzo di frittura, che il marito le aveva buttato sul bel viso di porcellana brunita, lei si svuotò. Davanti alle Forze dell’Ordine prese a raccontare…
Di lui che vendeva la bellezza di lei a clienti occasionali, che alle sue ribellioni seguivano insulti e botte, spesso aiutato dal bere, vizio che aveva preso in Italia; di lui che, oltre a mutande e calzini, costringeva il figlio maggiore a vendere hashish a clienti selezionati e affidabili, di cui fece nomi e cognomi; venne fuori questo e tanto altro…
La vicenda finì sui giornali, e anche noi ambulanti; Salak fu arrestato e condannato.
Dopo diversi anni rividi Fusjia alla fermata di un tram; l’abbraccio fu lungo e lunghe le lacrime di entrambe; Rachid, vicino a lei, mi chiamò “zia” come era suo solito, ed era cresciuto, anche Fusjia era cresciuta, e aveva l’aria un po’ stanca, le cicatrici di quella giornata e di tutto quanto nel bel viso berbero. Mi raccontò che era stata per molto tempo in un casa di accoglienza, “nascosta” aggiunse “perché lui diceva che mi avrebbe sgozzata”. Ora, dopo la pena scontata nel nostro paese, Salak era stato rimpatriato in Marocco. A lei era stata assegnata una casa popolare in periferia e vi viveva con i due figli; aveva trovato lavoro in una friggitoria. “Per questo hai preso qualche chiletto” scherzai su. Si riuscì a sorridere, finalmente. Poi ci salutammo, felici entrambe dell’incontro.
Da allora ci siamo riviste tante volte; Fusjia ora è una donna serena, ha trovato un uomo che la ama e la rispetta; lavora sempre nella solita lavanderia, Rachid è già alle superiori, e l’altro, Khaled, lavora come operaio in fabbrica.
Questa giovane donna, la sua vita, la sua vicenda di immigrata mi hanno segnato; come i suoi segni nel viso. Si è spalancata una realtà fatta soprattutto di un modo spaventosamente sbagliato di approcciarsi all’integrazione, fatto di soprusi, violenze, illegalità; e, quel che è peggio, sostenuto e tollerato da chi accoglie queste donne, un paese che sa chiudere un occhio, quando dovrebbe condannare e basta. Penso a Fusjia nelle mani di questi uomini italiani, che con fare compiacente si approfittavano della sua condizione di sfruttata inerme. Ma c’è stato qualcuno, e non solo uomini, che ha incolpato anche lei, allo stesso modo. Ignoranza, chiacchiere di mercato, certo, e lo spero vivamente; ma i commenti che sono seguiti alla vicenda mi hanno ferita, prima me che lei, e nel mio ricordo mi feriscono anche ora.
Ma poi su tutto prevale la speranza, al pensiero di lei che si è felicemente integrata nel nostro paese, un paese che ha da offrire e spesso sa farlo con generosità, rispetto e consapevolezza, e che ne è spesso ricambiato.
Ho voluto così scrivere di Fusjia, di questa donna davvero bella, forte e coraggiosa, con gli occhi di gazzella, che splendono di nuovo di una luce piena di fiducia, come le lune di tutto il mondo.