Giugno 8, 2015

Da oggi e per tre settimane, sarà pubblicato un capitolo di questo racconto; leggeteli tutti con attenzione perché ci sarà una sorpresa: sarete voi a dover scrivere gli altri e a sviluppare la storia. Gli scritti migliori saranno di volta in volta scelti e pubblicati. Cominciate dunque a seguirci. #loscrivoio

CAPITOLO 1

Sono le cinque del mattino, quando i primi raggi del sole colpiscono le vetrate della cappella del convento: mille colori inondano i muri e le vecchie panche di legno; gli affreschi cinquecenteschi sembrano brillare e aver perso le incrostazioni del tempo, che solitamente li caratterizzano e le colombe volteggiano tutt’intorno alle nicchie costruite sotto i finestroni intarsiati di mosaici.
Un canto s’innalza fino al cielo, per poi diffondersi nell’aria; in questa melodia di voci dimora solo la quiete e la mente si perde in una dimensione senza spazio e senza tempo ai confini con l’estasi; i cattivi sentimenti non sembrano appartenere a questo luogo ma covano nell’ombra e, anche se non si percepiscono, sono pronti a emergere nei momenti meno inaspettati.

Questo piccolo convento benedettino, sorto in epoca medievale, si erge su una altura a picco sul mare, poco distante dal paese di Bolbac, situato nella Francia meridionale; realizzato grazie all’opera di alcuni missionari inviati da San Gregorio Magno, si presenta imponente, magnifico e nello stesso tempo austero. La legge che in esso vige è la regola di San Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine benedettino, la quale si propone di celebrare la gloria di Dio sulla terra attraverso la pratica rigorosa dei precetti evangelici e pone, sullo stesso piano, la preghiera e la contemplazione con il lavoro manuale, poiché non di solo spirito e di sola carne è l’uomo ma dell’uno e l’altro insieme. Il suono delle campane annuncia la messa e dal cortile si vedono, come in una lunga processione, alcuni uomini incappucciati che mormorano preghiere in latino, e sembrano essere lontani anni luce dai problemi e dai pensieri che attanagliano l’uomo; essi vivono in clausura, isolati dal mondo ma collegati a esso per il tramite dell’ospitalità che li contraddistingue. Entrano nella cappella, si segnano e ognuno prende posto su una panca; l’odore d’incenso pervade tutto l’ambiente, le voci riunite in un canto corale risuonano vibranti per poi ricadere tronche; emozione e contrizione sono i sentimenti che si percepiscono in coloro che innalzano le lodi al Signore. Se le pietre potessero parlare racconterebbero quanto a volte l’apparenza nasconda la verità e come possano in loro essere racchiuse realtà a dir poco raccapriccianti. A uno a uno, i monaci leggono dal loro breviario le litanie, e l’effetto è un alternarsi di voci, di accenti, di pause.

Con gli occhi semichiusi, nella penombra, in un angolo, uno di loro; è il più anziano il suo nome è Elia e da poco ha iniziato a recitare le sue preghiere: ha la barba bianca e lunga, la corporatura possente, le mani robuste e callose e su una guancia una cicatrice. Legge Elia, mentre la sua mente vaga: è in una stanza, tutt’intorno a lui è scuro, neanche i raggi della luna gli sono vicini. Sul pavimento, tra i secchi e le pale c’è un corpo; il monaco è impietrito, i suoi occhi sono spalancati il suo viso inespressivo e il suo cuore sembra quasi voler venir fuori dal petto… All’improvviso i rintocchi delle campane e Elia si ritrova fermo, come se fosse intorpidito dal sonno e nella cappella non c’è più nessuno; la sua fronte è sudata, come se un incubo notturno gli si fosse presentato senza preavviso turbandolo e dilaniando il suo spirito.
Ogni notte, nel buio della cella a nulla servono le punizioni i castighi inflitti al corpo: un lamento tormenta Elia per lasciarlo svuotato il mattino; è un qualcosa da cui il monaco non riesce a liberarsi.

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Tutte le domeniche mattina, dopo la messa, giunge dal paese con il suo carretto, il vecchio Franco, un contadino che suole portare al convento alcune provviste, cibo, coperte, medicinali, che la gente con amore e premura dona, a volte spinta realmente da tali sentimenti, altre volte per ricevere grazie o ottenere assoluzioni dai peccati; il cammino è lungo e faticoso; la strada è stretta acciottolata, polverosa e questo sembra aver creato una sorta di confine tra il mondo e quel luogo così difficile da raggiungere. Il contadino scarica quanto ha portato; gli pare un sogno essere arrivato e dopo la fatica viene rifocillato. Sporco e con i suoi modi rozzi, tra un bicchiere di vino e un pezzo di focaccia si lascia andare a racconti d’incontri galanti tra belle campagnole e intraprendenti giovanotti, di matrimoni forzati e monacature macchiate di peccato.
Ascolta Elia e a stento trattiene il braccio per non colpire quell’uomo; le storie che con tanta facilità il contadino getta sulla mensa dei monaci rischiano di turbare le menti di coloro che sono più giovani e lui ha il dovere d’impedire tutto ciò; essi stanno ad ascoltare con la bocca aperta, quanto Franco racconta, come fanciulli cui è mostrato un mondo nuovo e nel loro intimo quella vita, a volte, li chiama insistente, trovando però il rifiuto dettato dalla forza della fede.
“Nessuna distrazione, nessun’ombra deve distogliervi dalla preghiera e dal lavoro; la mente, gli occhi devono impregnarsi dell’amore per Dio, le nostre mani devono traboccare di opere innalzate in Suo nome, le nostre vite non devono appartenere a nessun’altro”. Queste le parole che Elia ripete dopo le preghiere, durante la frugale cena e nei momenti più difficili.
Tutti amano quest’uomo così forte, così deciso e sicuro della sua scelta tanto da non capire che la sua dedizione verso il convento e quel tipo di vita è forse troppa, eccessiva.

La primavera, come ogni anno è giunta: i fiori delicatamente si schiudono ed emanano un dolce profumo di vaniglia che inonda l’aria, si tratta di semplici fiori di campo, come viole, ciclamini che, però, farebbero invidia alla più bella delle rose; le rondini volteggiano leggere nel cielo e sembrano quasi sfiorare le nuvole; si allontanano, si intrecciano, festeggiando, a modo loro, l’arrivo della nuova stagione. Il tepore di questi giorni spinge i monaci a lavorare con maggiore gioia rimovendo le nere zolle e preparando l’orto per la semina. I dolci cinguettii dei passerotti si disperdono lungo la vallata e giungono fin nel piccolo paese di Bolbec, nel quale la vita scorre lenta e tranquilla come se quell’edificio possente, che si trova sull’altura potesse in qualche modo proteggerlo; gli alberi da frutto, con le loro gemme da poco sbocciate colorano i viali e i primi animali, andati precedentemente in letargo, tornano, pian piano, vispi a fare capolino. Ogni monaco è intento a svolgere un’attività, nessuno ozia e tutti hanno compiti e impegni a cui assolvere; tra questi il giovane Tommaso, da poco entrato nel convento; è alto, un po’esile con vivaci occhi neri.
È molto ansioso dal momento che gli è stata affidata la cura della biblioteca; essa è la più antica della zona, racchiude libri millenari che narrano forse tutta la storia dell’uomo, e l’atmosfera che si assapora conduce indietro nel tempo. Molto bello è vedere con quanta attenzione il giovane ripone i tomi cercando di dar loro la giusta inclinazione. All’improvviso, nel silenzio di quel luogo, un rumore; Tommaso si ferma e ode il respiro affannoso di un uomo e nello stesso tempo un forte odore di fumo; si fa coraggio e avanza a piccoli passi; giunge nell’ala della biblioteca dove sono conservati i tomi più preziosi e da dietro uno scaffale riesce solamente a scorgere la figura di un uomo che sta bruciando alcuni fogli di carta. Il tutto dura, però, solo pochi istanti perché l’uomo, avvertita la presenza del monaco, scompare nell’ombra.
Tommaso spaventato e in apprensione per i libri si dirige, con il cuore in gola, nel punto esatto dove si trovava l’oscura figura e si meraviglia nel vedere che nessun libro è stato toccato e che per terra vi è solo un piccolo cumulo di cenere, L’episodio è strano ma il giovane monaco decide di non far parola sull’accaduto.

La sera è giunta: avvolge tutto, niente le può sfuggire, e lascerà presto il suo posto alla notte con i suoi fantasmi; dopo cena ogni monaco si reca nella propria cella a pregare, ogni monaco ma non Elia. Lui è fermo, impietrito dinanzi alla porta dello sgabuzzino con la mano sulla maniglia come se fosse indeciso tra l’entrare e il rimanere fuori. I suoi pensieri sono un turbinio; niente di definito, niente che possa avere un senso, la sua mente vaga, vaga nei ricordi, nell’oscurità di un passato non dimenticato e atroce da cui non riesce a uscire.
L’oscurità è da tempo sua nemica, il sonno non gli è quasi concesso: lamenti e rumori di ogni genere popolano le sue veglie e cercano di condurlo alla follia, ma egli resiste fino allo stremo, fino ai primi raggi del sole che torna ogni mattina a rischiarare il suo animo. Attraverso i vetri di una piccola finestra si vedono i rami degli alberi e, i massicci cespugli, muoversi alla flebile brezza e si odono in lontananza le dolci nenie cantate dalle onde del mare.

autore di questa pagina:

Amalia Papasidero

Amalia Papasidero, editor, correttore di bozze, consulente letterario e blogger. Ha conseguito il master in “Tradizione e innovazione nell’editoria. Dal libro all’e-book” presso l’Università della Calabria.
Gestisce il sito web www.scritturaedintorni.it (che ha ottenuto l’accredito stampa presso il Festival della letteratura di Mantova nel 2016), che si occupa di ciò che ruota attorno al mondo della scrittura e offre numerose risorse e servizi per gli autori. Organizza eventi letterari e culturali (presentazioni librarie e musicali, campagne di sensibilizzazione su temi sociali). Ha da poco pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Riflessi”. Tiene corsi di scrittura e self-publishing, workshop sulle tematiche legate alla narrazione.

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